Questo rimarrà negli annali come il primo 25 aprile dove la potenza della teoria dialettica hegeliana si è manifestata al culmine della propria forza, dove tesi e antitesi si sono irrimediabilmente fuse in una sintesi che ribalta la Storia.
I presupposti covavano da anni, con l’ingresso nell’epoca fluida, dal sesso alle ideologie. Ma mai come oggi si può provare sincera confusione – almeno se si rimane in superficie, nei simbolismi – nell’assistere all’accelerazione degli eventi che ha portato la crisi ucraina. Chi mai avrebbe potuto immaginare che oggi – festa della Resistenza – la sinistra istituzionale, quella sedicente democratica e liberale, non avrebbe avuto dubbi nell’omaggiare per osmosi la resistenza ucraina, la stessa che non ha avuto remore nell’intruppare i battaglioni Azov forieri di simboli runici e idee nazionalsocialiste ed ha imposto feste nazionali nelle date di battesimo dei banderisti. Giusto qualche anno fa, qualcuno si sarebbe mai immaginato un 25 aprile dove sulla graticola pubblica – pedagogista e moralista – non ci sarebbe finita qualche associazione di nostalgici ma l’Anpi stesso? Difficile crederlo.
Come difficile è constare, proprio oggi, quanto ampie fette della destra radicale nostrana – di converso – non abbiano più alcuna esitazione nel vedere nella resistenza ucraina, innervata da quegli stessi battaglioni Azov, la filiazione di interessi atlantisti e americani contrari all’interesse europeo. Meglio dunque il patriottismo russo, sospeso tra zarismo e sovietismo, anche se le bandiere rosse di cui si fregia e di cui si è sempre tinto il 25 aprile non si contano.
I simboli sembrano invertiti, gli schieramenti pure. Ma anche se guardiamo al nostro microcosmo regionale, la situazione non pare essere più chiara. Non si contano, infatti, gli esponenti autonomisti che hanno aderito in modo acritico alla narrativa del nazionalismo ucraino. Questo è comprensibile: la guerra azzera ogni cosa, ogni giudizio di valore, il conformismo e la chiamata a scegliere barricata fanno il resto.
E per capire meglio, la genesi del conflitto potrebbe essere raccontata anche in un’ottica linguistica, ovvero il rapporto della lingua russa nel nuovo stato ucraino post sovietico. Durante l’era sovietica, infatti, la lingua ucraina e la lingua russa godevano entrambe dello status di lingua ufficiale. Questo bilinguismo, de facto e de iure, è entrato in crisi con il crollo dell’Unione Sovietica. Nel 1996 – con il varo della nuova Costituzione dell’Ucraina – fu sancito un nuovo equilibrio: il primato “mitigato” della lingua ucraina. In sostanza, l’ucraino diventava lingua ufficiale, ma veniva messo nero su bianco che lo Stato garantiva libertà di utilizzo delle lingue minoritarie. Non solo russo, ma tutela anche per il moldavo, ungherese e rumeno che in effetti vengono parlate ancora oggi in Ucraina.
Certo però che la deroga era pensata proprio per sancire un rapporto con le minoranze russofone che – per consistenza – era persino difficile definirle minoranze in Ucraina. Citiamo un giornalista di guerra del Manifesto dal profilo indiscutibile, Alberto Negri, che evidenzia come: “secondo il censimento del 2001, il 67,5% dei cittadini ucraini considerava l’ucraino come lingua madre, mentre il russo era considerato la lingua madre per un altro 29,6%“.
Sempre Alberto Negri ci ricorda che “nel 2012 venne introdotto il concetto di lingua regionale equiparata alla lingua nazionale dove una minoranza supera il 10% dei residenti“. Così il bilinguismo, dopo 15 anni, tornava ad esser una realtà in molte regioni ucraine dove la minoranza russofona era più consistente, con l’appoggio di governi che avevano come indirizzo politico il mantenimento di un buon rapporto con Mosca.
Tutto cambia con i fatti di Maidan e la nuova stagione a Kiev, le secessioni avvenute nel Donbass e la pulsione nazionalista ucraina che riemerge dominante. I podromi di una stretta alla lingua russa si trovano nei primi divieti all’uso di prodotti culturali in lingua russa – quali film, canzoni e libri – che vengono introdotti nel 2018 negli oblast più fortemente nazionalisti, come a Leopoli. Poi la stretta si estende a tutto il terriorio nazionale, con una legge del 2019 che abolisce l’uso delle lingue regionali introdotte nel 2012 in ciò che consiste la sfera pubblica del cittadino: negli uffici pubblici, nelle scuole, nelle università e durante le campagne elettorali il russo viene messo al bando.
Si comprede immediatamente come la questione etno-linguistica sia stata usata in passato in modo spregiudicato – in primo luogo dall’Urss – ed oggi sia la cartina di tornasole di uno scontro tra potenze che cela ben altri interessi. Altri interessi persino rispetto allo scontro retorico fra libertà e tirannide. Ma ciò non toglie un fatto: dove erano gli autonomisti valdostani quando ad una minoranza linguistica veniva tolta dignità – quando non impedito – all’uso della propria lingua natale? Possibile un tale ribaltamento di logica e schieramento?
Pare di sì, nell’epoca fluida tutto è al contrario. Però arriva sempre il momento in cui diventa necessario – anche se è antipatico – riportare pillole di verità scioccanti: in questa terribile pagina di Storia, che ha portato negli anni alla devastazione e ad una guerra mostruosa, gli “autonomisti” in Ucraina sono i popoli del Donbass.
Giuseppe Manuel Cipollone