Gentile Direttore di AostaNews24,
sono la mamma di un bambino sensibile, intelligente, a volte faticoso ma sempre unico. Scrivo in forma anonima, perché non voglio attirare attenzioni su mio figlio, ma dare voce a un disagio che riguarda tante famiglie come la nostra.
Quando si parla di “difficoltà di apprendimento”, la domanda da porsi forse è un’altra: sono sempre i bambini ad avere difficoltà oppure sono anche le scuole a non riuscire più a capire e insegnare ai bambini di oggi?
I ragazzi non sono quelli di trent’anni fa. Sono diversi, più sensibili, più fragili forse. Tante le ragioni a monte di questi cambiamenti, ma davanti a questa complessità, la risposta sembra essere una sola: etichettare.
Nel nostro caso, tutto è iniziato già dalla prima elementare. A novembre ci propongono subito un “patto scuola-famiglia”, poi un test, incontri con psicologi, psichiatri infantili, verifiche continue. Un carico emotivo enorme per chi vorrebbe solo che il proprio figlio venisse capito, aiutato, accolto. Alle volte sembra quasi che per noi, mamma e papà, la priorità è il bambino stia bene, per la burocrazia è portare a termine una pratica. E intanto lui, nostro figlio, inizia a sentirsi diverso, come se fosse malato ma è un bimbo bello e sano!
Per noi, come per molti altri, il percorso non è stato chiaro. Una diagnosi è arrivata, ma non rispecchia davvero chi è nostro figlio. Dice tanto, ma non dice tutto. E soprattutto, non cambia nulla: non ci sono risorse, non c’è supporto individuale costante e intanto lui resta lì, sospeso tra richieste scolastiche e pressioni burocratiche che non parlano la sua lingua. A volte sembra che l’obiettivo non sia aiutare i bambini, ma compilare documenti.
Nel frattempo, un bambino resta intrappolato in definizioni che non lo raccontano. E noi genitori ci sentiamo smarriti e inadeguati. Certo in mezzo a tutto questo caos, si incontrano anche professionisti umani, empatici, capaci. Il nostro pediatra, ad esempio, ci ascolta e ci accompagna. Ma non basta.
Questa lettera non è una denuncia né un’accusa. È una richiesta di onestà e di coraggio. Se vogliamo davvero parlare di inclusione, dobbiamo insegnarla ai nostri figli. Mio figlio non è un problema da risolvere. È una persona da capire. È unico, come tutti. E vorrei che fosse visto così.
Una mamma preoccupata