Di questi tempi stare al passo coi “diritti” è diventato quasi un lavoro, faticoso per certi versi. Non si fa in tempo a sentire le rivendicazioni di questi, che quegl’altri si svegliano e ne chiedono di nuovi e poi altri e altri ancora. Quella dei diritti per tutti – e per nessuno in fin dei conti – è un’ideologia fatta e finita.
Così settimana scorsa, mentre la comunità LGBT+ valdostana sfilava per le vie di Aosta sulle note festose della Carrà, appariscenti e colorati come di consueto, veniva da chiederselo: ma per cosa stanno scendendo esattamente in piazza?
La domanda può sembrare provocatoria, ma in realtà non lo è affatto, perché appena si passa dalla tesi dei tanti “diritti negati” alla loro elencazione concreta, il bilancio oggi risulta alquanto scarno. Ad esempio, se si pensa che un’aggressione a danno di una persona per ragioni di orientamento sessuale viene punita dal Codice Penale con un’aggravante, si potrebbe dire che la legge – considerando il reato in modo particolrmente odioso – ne riconosce anche una particolare sanzione e dunque una maggiore tutela per la vittima. La disugualianza, quindi, non risiede in questa sede.
In campo civile, poi, con l’introduzione delle Unioni civili, si può dire che anche il gap per quanto concerne i diritti individuali sia stato per grandi tratti colmato: due persone – eterossessuali o omosessuali che siano – possono accordarsi repricoci diritti (e obblighi, tendiamo a dimenticarlo) di fronte alla legge, in tutti quei campi di mutua assistenza economica e non che spesso ancora oggi vengono agitati come spettro.
E allora di cosa si tratta, cosa si rivendica durante i Pride – compreso – l’AostaPride? Esistono due grandi aree, una concreta e l’altra di frontiera, sulle quali vertono ancora le istanze LGBT+.
Partiremo dalla seconda, quella di frontiera, ovvero le rivendicazioni relative alla possibilità per ognuno di stabilire il proprio genere a partire da un dato del tutto soggettivo e non più oggettivo e “materiale”. In questo approccio, “gender” appunto, ognuno deve poter rivendicare un’identità assoluta e insandacabile all’altro a seconda della propria volontà, sentire o giudizio, anche momentaneo o temporaneo.
Su questo scenario, che apre le porte ad una sempre più spinta “biopolitica” sui corpi dell’essere umano, in realtà non ci soffermeremo. Tanti e tali sono i risvolti sociologici, giuridici, politici ed economici che meriterebbero un articolo a parte. Mi limiterò a sottolineare che – effettivamente – la frattura intestina nel progressismo contemporaneo si innesta proprio su questa faglia: così come la lotta di classe verteva sullo scontro metastorico fra borghesia e la volontà di emancipazione dei proletari, la lotta di genere verte sullo scontro metastorico fra il genere maschile e il suo antagonista femminile in cammino verso una perenne emancipazione. L’obiettivo ultimo, filosofico potremmo dire, va capito: il socialismo storico sognava un mondo dove i proletari – preso il potere – avrebbero annullato le classi. Così il genderismo, che è già diventato “transfemminista” e non più femminista, sogna di rottamare in un unicum spazio-temporale sia l’elemento maschile che femminile, con buona pace della biologia. Per gran parte utopie, certo.
Utopie che stanno però ispirando – più o meno direttamente – politiche di genere molto concrete da lato e l’annullamento di genere dall’altro.
L’altra area, invece, riguarda il diritto di famiglia. Ovvero il diritto di comporre non solo un nucleo familiare riconosciuto, già previsto dall’Ordinamento, ma un vero e proprio matrimonio. Perché i vertici della comunità LGBT+ si arrovellano tanto affinché venga previsto il cosidetto “matrimonio egualitario”? La risposta è una sola: la possibilità di vantare a pieno titolo e in modo incontrovertibile dei diritti genitoriali nei confronti dei bambini.
In fondo, l’etimologia della parola ce lo ricorda: “mater” e “monium”, ovvero “madre/maternità” e “dovere”. Anticamente, quindi, il matrimonio era quell’istituto con il quale la società – il genius loci direbbero i filosofi – riconosceva il dovere di essere madre e (di riflesso) padre, costituendo così una nuova famiglia. Il dovere del padre, invece, era il “pater monium”, ovvero il patrimonio, in senso ampio la capacità di sostenere quella famiglia.
Quanto un tempo potesse essere difficile essere madre di figli “bastardi” – oggi le chiameremmo ragazze madri – senza riconoscimento sociale e diritti, solo Dio lo sa. Quanto poteva essere dura essere padre senza patrimonio, anche. Quanto potesse essere dura esser padre di figli “bastardi”, forse ancora di più, visto il peso archetipico che quelle società davano alla verginità e alla pudicizia delle fanciulle. Insomma, tutt’altro mondo e tutt’altro matrimonio.
Ma un’eco resta, un’impalcatura potremmo dire: ancora oggi non potrebbe esistere riconoscimento matrimoniale senza riconoscimento di diritto alla genitorialità. Ecco dunque qual è l’unica vera rivendicazione concreta del mondo LGBT, non diritti individuali ma diritti su terzi, sui bambini.
E qui la cosa cambia, ovviamente, perché oltre ai diritti su di sé, fra adulti consenzienti, entrano in gioco i diritti di persone che ancora non ci sono: i nascituri. Che ai bambini possa essere negata a monte, dallo Stato, la possibilità di avere una mamma o un papà per molte persone è onestamente aberrante.
Certo spesso si dice che anche le famiglie tradizionali hanno tanti problemi e tribolazioni, questo è vero. I tempi sono difficili, l’essere umano è una creatura limitata e anche la libertà ha i suoi costi. Ma di certo non è una prova che le coppie omogenitoriali sarebbero ontologicamente meglio, felici per essenza, anzi gli Stati che in questo percorso ci precedono stanno lì a dimostrarci che i disastri famigliari sono esattamente analoghi ai nostri se non peggiori.
Né, altro grande cavallo di battaglia, gli orfanotrofi siano andati svuotandosi ove la genitorialità alle coppie omosessuali è consentita. Quante volte la vulgata ci ha detto: “piuttosto che in orfanotrofio, meglio un bambino affidato ad una coppia gay”. Senz’altro è vero, peccato che gli orfanotrofi continuino ad esser pieni anche e soprattutto nei Paesi progressisti. Piuttosto, mi pare, si siano riempite le cliniche per “bambini nuovi”, gli uteri in affitto, perché siamo una società di consumo: nessuno in genere – omossessuale o eterosessuale – gradisce cose usate.
Ecco perché è un bene che Italia la pratica dell’utero in affitto sia diventata un reato, un reato rafforzato, anche se fosse solo simbolicamente e inapplicabile nel caso concreto. Perché se anche l’ultimo aspetto della vita umana libero dalle leggi della tecnica e del mercato – la nascita – finirà sotto il suo dominio, potremmo ben dire che l’Umanità sarà del tutto finita.
E che questo sia il crepuscolo dell’Umanità – per tante ragioni – penso sia sotto gli occhi di tutti. Che il processo si possa fermare, altrettanto, non lo si potrà fare. Ma che io debba dire “piccolo mio, sta bene che tu abbia un genitore 1 e 2 e non una mamma e papà”, sennò pecco di omofobia anche no. Non è questione di togliere diritti a nessuno, ma la genitorialità è un limite che non si può valicare in nome di nessuna libertà e della libertà di nessuno.
Giuseppe Manuel Cipollone