L’elezione di Mattarella come rinnovato Presidente della Repubblica, dopo tanti tira e molla, ha decretato una svolta inaspettata nella politica italiana: il collasso delle coalizioni a livello nazionale, specie quella del centrodestra.
Non che a sinistra, inteso come “campo largo” insieme al Movimento Cinque Stelle, vi sia gran armonia – basti vedere le botte da orbi che stanno partendo fra Conte e Di Maio – ma è nel centrodestra che lo scontro ha fatto più eco mediatica. Il gruppo parlamentare di Forza Italia pare un coacervo a tratti indisciplinato in attesa di un erede di Berlusconi in grado di prenderne le redini, la Lega di Salvini è frastornata e in cerca di un nuovo baricentro dopo la mole di bordate ricevute per l’inaspettato endorsement a Mattarella e Fd’I non sta perdendo occasione per dimostrare una violenta acredine nei confronti degli (ex?) alleati.
Sia come sia, in questo caos post elezione, un elemento politico salta all’occhio: oggi, rispetto a poco tempo fa, è molto più probabile che il superamento del Rosatellum ricalchi un’altra legge elettorale proporzionale (seppur con dei correttivi) piuttosto che andare verso il maggioritario. Alcuni a tal proposito paventato il modello tedesco.
Una condizione questa che favorirebbe l’emersione del Grande Centro, o meglio della consorteria del centro. In Italia, infatti, non si può parlare di un unico centro ma solo di tanti centri a tratti paralleli e a tratti convergenti – vivi e vitali in quasi tutti i partiti – da destra a sinistra. Un grande centro non inteso dal punto di vista ideologico ma da quello del posizionamento nello scacchiere politico.
Un andamento pare tracciato, anche se alcuni colpi scena potrebbero cambiare il quadro. Ognuno per sé e – dopo le elezioni – larghe intese per incollare il fenotipo umano del “moderato” di tutti partiti. Nei palazzi questo tipo di pulsione appare sempre allettante, in nome della credibilità e del buon governo, ma spesso si deve scontrare con le urne dove la dura realtà dipinge un Paese più polarizzato rispetto alla consorteria universale dei “mille centri” e della stabilità sopra ogni cosa. Resta quindi da vedere l’impatto del draghismo sulla coscienza dell’opinione pubblica italiana, se si sia trattato di un congelamento temporaneo dello scontro in nome dell’emergenza o di una pax fra visioni del mondo duratura.
Ma questo nuovo assetto nazionale in nuce, covato da tempo ma accelerato dall’elezione quirinalizia, può avere un’influenza sul contesto regionale? Probabilmente sì, per quanto “chez nous” vi sia la volontà di considerarsi una Repubblica un po’ a parte (molte volte è vero!) spesso non potremmo esser più arci italiani di così. Malgrado tutte le particolarità la Storia ci insegna che la nostra piccola regione, non di rado, è un vero laboratorio dove si sperimentano sintesi che solo in seguito diventano esperimenti su scala più ampia.
I riferimenti – per arrivare al punto – non possono che essere alla proposta di referendum in senso maggioritario e presidenziale lanciata giusto una decina di giorni fa da un comitato di esponenti politici (e non) di schieramenti differenti, sia di sinistra che di destra. Una proposta che stravolgerebbe lo schema di gioco della politica locale e se fosse arrivata in qualsiasi altro momento storico probabilmente avrebbe tenuto banco per settimane. Invece, un relativo disinteresse pare essersi abbattuto sopra l’iniziativa che, per inciso, per quanto detto poc’anzi sul contesto nazionale, rischia di esser stata lanciata persino in maniera intempestiva.
Il maggioritario infatti ha una caratteristica nel nostro sistema partitico: polarizza lo scontro o forse solo lo storitelling, ma in ogni caso polarizza. Spinge il centro (o i centri) verso un moto di tipo centrifugo ex ante l’elezione.
La domanda è dunque a chi potrebbe essere funzionale un andamento di questo tipo? Sicuramente a beneficiarne potrebbe essere un partito come il PD valdostano – e realtà affini come la sinistra di governo – che da un anno mezzo vivono un palese complesso di abbandono da parte dell’Union Valdôtaine, al punto che compagni di prim’ordine sembrano diventati dei chierichetti pur di non urtare gli equilibri di governo. È più che evidente che un sincero maggioritario sarebbe una spinta considerevole per l’UV verso l’orbita dei loro attuali alleati di governo, legandoli – in modo molto piu stringente – in quel contesto politico.
E qui arriva la considerazione successiva. Proprio per l’UV – di nuovo in una posizione di relativa forza nella politica regionale e in una fase di presumibile risalita nelle urne – pare verosimile pensare possa non trovare attraente giocarsi una tale libertà di movimento potenziale in nome di una governabilità che si trova solo sulla carta. Senza contare tutta la costellazione che gravita intorno al Leone Rampante – fatta di tanti amori e odi personali – con la quale un giorno sì e l’altro no si parla di reunion. Per quale ragione una tale area, tanto magmatica ma così profondamente conforme negli intenti strategici, dovrebbe commettere una eutanasia del proprio potere di esser ago della bilancia spingendo verso una legge elettorale maggioritaria non è chiaro.
Non è tutto, manca un attore importante sulla scena: il principale partito di opposizione attuale, il primo partito di maggioranza relativa della Valle d’Aosta. Il partito che più di tutti ha risvegliato gli entusiasmi degli ultimi anni in regione e la cui stella appare da qualche tempo meno nitida: la Lega VdA. Su come l’ipotesi maggioritaria venga vissuta in casa del Carroccio, non vi sono certezze. O meglio, vi è un unica certezza: sarebbe convenuta, con tutta probabilità, un anno e mezzo fa alle scorse elezioni se debitamente organizzata. Ma il rischio concreto è di essere già fuori tempo massimo.
Il parere dello scrivente non è mai stato un mistero: la Lega avrebbe dovuto ragionare fin dal primo momento come una incociliabile alternativa all’UV. Si badi non già dal punto di vista dei valori, dell’afflato federalista, della tutela dell’autonomia locale dagli eccessi centralisti. Da quel punto di vista la Storia stessa della Lega garantisce per essa. Ma dal punto di vista del posizionamento strategico sì, una alternativa totale e inconciliabile.
La Lega avrebbe dovuto rappresentare quel parito federalista, di stampo conservatore e rivoluzionario, di cui la Valle d’Aosta ha sentito da sempre la mancanza. Un partito in grado di coagulare intorno a sé altre forze, per incarnarne la leadership – sfruttando la carica attrattiva delle urne che all’epoca straripavano – lasciando finire a orbitare a sinistra chi in quel momento subiva il colpo, volente o nolente che fosse. L’ elezione del Comune di Aosta è solo uno dei moniti, il più evidente, che per il sottoscritto più di altri – non temo smentite in ciò – segna l’esempio di tutto quello che senza ragionevolezza è stato e non dovrà piu essere in futuro. E probabilmente non sarà perché alcune “congiunure astrali” per ribaltare la Storia, politicamente parlando, non è detto che ripassino.
Fatto sta che solo questo scenario gettato nel 2020, con convinzione, avrebbe permesso oggi una svolta maggioritaria serena, con il vento in poppa e con essa la fine tardiva della Prima Repubblica anche in Valle d’Aosta. Invece con tutta probabilità questa rimarrà ancora con noi, una Repubblica delle fontine (cit.) che malgrado le apparenze è ancora viva, vegeta e lotta insieme a noi. E sia mai, per un appasionato di politica, ha sempre il suo fascino intramontabile. Basta capirlo, intuirne l’andamento e saper stare nella partita.
Ma in questa occasione un insolito destino, da molti inaspettato – e solo dai più acuti subdorato -, potrebbe unire in modo paradossale le due potenze “nemiche” ai capi del filo rosso.
Giuseppe Manuel Cipollone