Il 13 luglio 2024 è un giorno che segnerà la Storia americana in modo indelebile: il colpo di arma da fuoco sibillato ad un solo centimentro dalla testa dell’ex Presidente degli Stati Uniti e attuale candidato repubblicano Donald J.Trump traccerà un prima e dopo l’attentato.
I due mondi che si incontrano e scontrano sono entrambi lì, a pochi giorni dalla convention generale repubblicana di Milwaukee, in una danza macabra che prelude all’antico rito dell’assassinio dell’Imperatore: da un lato un giovane, originario della Pennsylavania, Thomas Matthew Crooks, viso sproporzionato, pallido, emaciato, capelli lunghi e incolti. Il figlio legittimo di quello che l’Occidente è diventato, dopo decenni di stili di vita malati e di rancorosa propaganda dei diritti civili. Decenni di progressiva e sistematica confusione fra libertà e brutale pedagogia, decenni di sordida violenza mascherata nel suo opposto: il frutto velenoso del marxismo più bieco che ha cambiato spoglie, si è fatto esso stesso trasgender, fluido e mentalità distorta e totalizzante.
Crooks come figlio legittimo della nuova cifra dell’Essere medio occidentale: il senso di colpa e il piagnisteo. Orde di vip, personalità, personaggi noti, pronti al compianto pubblico per questo o quel diritto negato, per questo o quel costume presuntamente patriarcale, oppressivo o coloniale. Sempre pronti a piangere in TV, spesso inventodosi di sana pianta qualche disagio passato, giusto per stare nel giro: perché se non hai subito una violenza, se non hai avuto problemi in famiglia, se non arrivi da un quartiere difficile, se non sei stato emarginato, te lo devi procurare un disagio per far leva sulla commozione collettiva. E pace se poi vivi nella city e frequenti solo ristoranti stellati, oggi – in tutti i campi – vince chi piange di più o sei fuori dalla narrativa
E poi c’è quel “fight, fight, fight!” scandito alla folla, pochi secondi dopo che un proiettile ti è schizzato ad un soffio dal cranio. C’è quel “fight” trasognato di Donald J.Trump, figlio legittimo del mondo wasp, che arriva dopo anni di pesantissime campagne stampa, calunnie di ogni sorta. Che arriva dopo un’elezione persa in modo controverso, dopo i processi che avrebbero spezzato anche un rinoceronte.
E invece lui è lì, con un orecchio perforato e quell’esortazione ai seguaci che significa “combattete”. Lui è lì a riprendersi il posto di Imperatore, se non è questa volontà di potenza io non saprei che altro potrebbe essere.
Un paradosso tutto americano, un magnate delle upper class più odiato fra i suoi simili che nelle province, nelle campagne, nelle middle class operaie. Un simbolo emotivo prima ancora che sociale: il riscatto del self-made man, di chi non si rassegna alla dittatura delle frigne.
In quel pugno alzato di Trump, stordito dal colpo ma ancora combattivo, c’è tutta l’energia di un’America profondissima, che si è resa conto con orrore dell’ingresso del cavallo a Troia. In quel pugno alzato c’è la forza di chi per dominare il mondo non sente il bisogno di esserne il “poliziotto”.
E forse in quel pugno c’è anche la speranza di chi, nel mondo, vorrebbe vedere una fine alla rapida corsa verso lo scontro globale. Una speranza che forse non è più che una pia illusione, ma in fondo siamo uomini e abbiamo bisogno di credere in qualcuno. Come ha creduto l’ex vigile del fuoco, Corey Comperatore, morto coprendo con il corpo la propria famiglia.
Quindi fight Donald, fight! Se non vinci tu, chi altri potrebbe farlo…
Giuseppe Manuel Cipollone